Faremo questo percorso partendo dalla visione di un cortometraggio animato che trovi su Netflix sotto il nome
“Se succede qualcosa, vi voglio bene“, scritto e diretto da Will McCormack e Michael Govier.

Se non l’hai ancora visto (e ne hai la possibilità) ti consiglio di guardare questo corto e poi tornare qui, dura 12 minuti, seguono spoiler.
Trama
La storia si spalanca sul dolore senza tempo di due genitori la cui figlia è morta in una sparatoria a scuola (l’opera vuole portare attenzione sul tema del gun control negli Stati Uniti). Ed è proprio un sentimento di sospensione che accoglie entrando nella casa dei due personaggi.
L’estrema stilizzazione, l’assenza di punti di riferimento nel contesto, l’uso del bianco e nero: ogni scelta grafica ci induce a provare le vertigini del senso di vuoto.
Neppure le parole sono rimaste, i protagonisti non hanno un dialogo, né fra di loro né verso di sé.


Ed è qui che vorrei soffermarmi.
È impossibile mettere a tacere ciò che si ha dentro. Se non guardati, se non espressi, i mille temi che abitano in noi troveranno ugualmente la maniera per venire alla luce (spesso come manifestazioni fisiche: contratture, ansia generalizzata, insonnia…) nel corto questi prendono le sembianza di due ombre.

Le ombre rappresentano il loro io autentico, quello strettamente connesso con il proprio sentire, integro in ciò che vive e avverte. Si trovano a svolgere il compito che i due adulti sembrano non riuscire a compiere: esprimere con forza tutta la verità del loro mondo interiore.
Si può sopravvivere al dolore? La risposta dei due adulti sembra risiedere in una sorta di apatia indossata come una coperta in difesa del mondo.
È un’altra forma di morte: non sento più nulla, non esisto più.

Ma la realtà offre continuamente occasioni per accedere alla tua verità, alla scoperta di te stesso, ed è un cammino che spesso si percorre nel dolore.
Una maglietta e una crepa sul muro, uniche note colorate del cortometraggio, sono l’aggancio con il punto di rottura che viene così sottolineato.

Ecco che accade qualcosa, nella sospensione innaturale inizia a inserirsi un ricordo e poi un altro e un altro ancora… finchè il ripercorrere la propria storia diventa una corsa verso l’estremo e struggente tentativo di cambiare ciò che è accaduto, perché il cuore sembra non reggere, “perché non posso riviverlo di nuovo, non posso perderti ancora”.

Il dolore che aveva isolato i due sposi qui li unisce nello scopo comune di bloccare, al ricordo della figlia, la strada verso la scuola (ultimo luogo che la vedrà viva).
Non ho parole per descrivere la bravura e l’incredibile sensibilità usate per rappresentare la disperazione di un salvifico gesto illusorio compiuto da un genitore per impedire la morte di suo figlio.

Fare uscire finalmente quelle lacrime fa sì che le ombre tornino al loro posto, dentro ai due protagonisti, che hanno imparato a convivere con tutto ciò che li definisce come persone uniche e insostituibili.
Sono di nuovo interi perché, nell’atto coraggioso di guardare il baratro del loro dolore, hanno integrato in sé tutti i pezzi della loro storia, hanno imparato a dargli voce.

Il sacrificio dei bambini
C’è un appunto che sento importante sottolineare, pur esulando dal racconto stesso. È il passaggio che vede l’ombra bambina disperarsi per il dolore dei genitori, così tanto da cambiare la propria identità nello sforzo innaturale di piegare la terra per salvarli (in questo caso nella loro ritrovata unione).

Le parole che ho usato per descrivere questa scena non sono un caso. È importante, per noi adulti, sapere che questo è quello che realmente fanno i nostri figli: si snaturano per corrispondere alla forma di amore di cui noi abbiamo bisogno, sacrificano la loro infanzia e la loro autenticità. Non lo scrivo per indurre a sensi di colpa ma a prenderne consapevolezza.
Curare le nostre ferite non è compito loro; siamo noi a doverlo fare, siamo noi a dover ripercorrere le nostre storie e a guardare in faccia i nostri nodi per sollevare i figli dal compito di doverci salvare.
